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SARA PALMIERI & FIORENZA PINNA


INTERVISTA

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Sara Palmieri, Untitled#2 da La linea d'acqua, courtesy of the artist

Sara, mi hai parlato per la prima volta de La Linea d’Acqua l’anno scorso, quando stavamo preparando un’intervista più generale sul suo percorso artistico. Avevamo discusso di M., il tuo primo progetto, legato ai temi della memoria, della famiglia, della trasmissione e dei legami femminili. Un lavoro molto intimo, che prende spunto da una foto e da un’esperienza passata di tua nonna, per propagarsi, intrecciarsi e fare eco con le tue immagini e il tuo presente. Nonostante l’aspetto autobiografico sia meno esplicito, anche La Linea d’Acqua nasce in un contesto di vissuto familiare e personale: il Polesine è il luogo che unisce tre generazioni di donne, artista, madre e nonna, la terra di giochi e scoperte d’infanzia. Se i capelli vi legavano in M., qui è l’acqua che scorre, muta, torna nella sua organica fluidità. E’ la terra, l’atmosfera di questi paesaggi del Po. Sono i racconti, i ricordi, le parole, i suoni, le immagini; frammenti che restano, spariscono, si creano. Questi due lavori per me sono strettamente connessi, come in un ritorno di sperimentazioni, idee e ossessioni della tua prima ricerca fotografica che prosegue e si apre a nuove possibilità.

S: La rilettura della propria memoria, del tempo che non abbiamo vissuto ma ci ha generato, è la base per scrivere una nuova storia oggi, che si tratti di identità femminile, di genere, di eredità culturale, di trasformazioni dello spazio che abitiamo e come questo riflette noi e il nostro tempo. La storia collettiva è fatta di storie individuali. Credo mi preoccupi tramandare la memoria personale quindi collettiva attraverso una rilettura che la apra e liberi da dinamiche, imposizioni e interpretazioni passate, e la spinga verso un futuro più ampio.

Questa domanda parla di un percorso artistico, dove sei ora e quello che ricordi essere un inizio. La connessione principale tra queste due parti è sempre la fotografia, prima come oggetto e poi come processo e strumento.

Con M. ho scoperto il potere rivelatorio dell’immagine: una vecchia foto che conteneva una storia affascinante mai raccontata e lasciava una fessura per infilarsi e osservare se stessi in rapporto alle origini, per prendere una distanza e mettere in luce le parti che necessitavano di essere rilette: il ruolo della donna in quel momento storico, la libertà limitata e risolta solo in uno spazio immaginifico.

In M. come ne La linea d’acqua c'è un lavoro intorno a un corpo, materia o spazio, con cui interagisco per avere delle risposte e la fotografia testimonia questa esperienza, questo processo: allora i capelli di mia nonna, protagonisti e testimoni di una storia incredibile, feticcio e oggetto da osservare, isolare dal contesto o indossare; oggi un paesaggio da interrogare, l'acqua del fiume con quel ruolo di testimone chiamata a partecipare, le memorie raccolte dell'alluvione in cui la voce, il linguaggio, il tema del trasmettere e tramandare diventano elementi con cui interagire per attuare stimolare potenziali riletture una traduzione, trasformandorli in nuove forme e significati. Qui lo strumento fotografico partecipa nel processo non solo a testimoniarlo ma fisicamente, diventando superficie percettiva, dettando tempi di attesa e sviluppo, non permettendo il controllo del risultato. L'immagine è effettivamente lo spazio dove avviene l'incontro di vari fattori, compreso il processo emozionale che accompagna tale percorso di ricerca e scoperta. 

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Sara Palmieri, Eravamo terra da La linea d'acqua, courtesy of the artist

L’investigazione simbolica e visiva della materia emerge come una delle questioni fondamentali nella tua pratica artistica. Se nel tuo precedente lavoro, La Forma del Silenzio, ti eri focalizzata su rocce e minerali nella loro relazione cosmica all’etere, qui l’elemento essenziale è l’acqua. Acqua che delimita e modella territori, che contribuisce a formare identità comunitarie e a convocare immaginari, acqua come depositaria di significato e gesto performativo. Puoi dirci di più sul suo utilizzo nel tuo progetto ?

 

S: In La Forma del Silenzio mi interrogo sulla nostra percezione del tempo ispirata dalla teoria della relatività di Einstein, che mette in luce come tempo e spazio sono strettamente interconnessi e così tutte le cose esistenti: per comprendere profondamente la nostra esistenza dobbiamo osservare lo spazio che abitiamo inteso come corpo, materia e luogo. E’ stato quindi un lavoro di osservazione della materia attraverso il corpo per riconoscervisi, e tracciare una mappa/costellazione di connessioni sia su un piano simbiotico che simbolico. In qualche modo c’è sempre la necessità di appellarsi ad una memoria, in quel caso ancestrale e cosmica, per riconoscere spazi emotivi in spazi fisici, e poi attuare una traduzione: ne La linea d’acqua ho avuto bisogno di aprire nel tempo e nello spazio una domanda personale sul trauma e la perdita, connettendola ad una storia più grande, quella dell’alluvione del Polesine, attraverso l’osservazione del ‘corpo’ che la contiene, che è il paesaggio e la materia che lo compone. L’acqua del fiume Po ha partecipato a questo processo di rivelazione come un corpo vivo con una sua memoria, a cui affidarsi, contenitore di tracce e ricordi sia simbolicamente che fisicamente. Una componente che interagendo con la pellicola, con le foto d’archivio e con il gesso a formare calchi, ha fatto cambiare il risultato rendendolo imprevedibile.  L’'imprevedibilità è affidarsi a qualcun altro. Ecco, il fiume, il territorio, la materia sono Altro. Il processo fotografico è altro da te, un altro a cui tu affidi una capacita’ di memoria e di azione.

L’acqua, elemento al contempo devastante e generatore di vita, diviene simbolo della parte sommersa di noi: il flusso, la circolarità, sono una metafora della memoria intesa come un eterno tornare, del passato che non è un ricordo disgiunto da noi nel tempo e nello spazio, ma un elemento presente e futuro. Ancora, l’acqua Madre nel simbolismo Junghiano che partorisce e nutre, acqua come femminilità lunare, identità femminile della memoria e, nel significato etimologico della parola, una cosa che fluisce nell’altra: il concetto astratto e la cosa che lo genera in Jung sono una realtà, “l’astratto mostra le sue radici nel tangibile”.

Come ne La Forma del Silenzio, mi interessava interrogare la materia, la natura, affidandole quel ruolo di testimone del nostro passaggio nel mondo e di custode del mistero della nostra esistenza. 

I tuoi progetti (penso il particolare a Scenario) sono spesso caratterizzati da una grande precisione e nettezza di linee, « scenari » ricchi a livello simbolico e iconografico, costruiti e pensati nel dettaglio. Il questo progetto la figurazione si muove verso contorni più indefiniti, si avvicina ad un’astrazione fatta di sottrazioni, silenzi, sbiadimenti, enigmi. La scelta di pellicole e modo di sviluppo lascia spazio alla casualità, all’imprevisto di cui parlavi. Il simbolo si fa esperienza, si fa gesto. Puoi parlarci della relazione tra queste scelte creative e formali e la tua riflessione su memoria, trauma e trasmissione storica ?

 

S: In Scenario ero interessata a ‘mettere in scena’ una finzione, a ricreare uno spazio fisico irreale tramite frammenti di immagini del reale (memoria personale, riferimenti letterari, simboli e metafore), ad interrogare quell'ambiguità che la fotografia sostiene tra cosa è reale e cosa non lo è, quale immagine di uno spazio esterno può permettere di riconoscere uno spazio interno. Anche qui il processo è fondamentale: l'atto di rimanipolare pezzi del reale è stato fisico, le immagini diventavano oggetti tridimensionali che, rimossie dal loro contesto e ricombinatie in nuovi accostamenti e ipotesi hanno assunto un significato universale, generando nuove domande e aprendo l'immaginario a diversi scenari. Ne La linea d’acqua mi sono affidata totalmente al processo e alla materia, all'acqua del fiume, alla pellicola fotografica, portando all'interno le tracce raccolte, ascoltate e osservate e attuando una traduzione in termini di tempo e spazio: c’è la pellicola, che si bagna e resta ad attenderci, le immagini vecchie trattate con l’acqua, modificate, lasciate ad acquisire l’azione del tempo e della luce.  Decidere di tenere gli 'errori' e farli diventare archetipi di paesaggio, frammentare un immagine in più momenti pensando al tema della trasmissione del messaggio e del linguaggio, negare la visione complessiva per richiamare quell'impossibilita di vedere e tramandare ciò che non c'è più. Operare una frattura in termini di gestualità e decisioni per dare corpo all’idea di trauma; liberare il più possibile la forma, e quindi la storia, da riferimenti visivi riconoscibili e rassicuranti.

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Sara Palmieri, Argine#3 da La linea d'acqua, courtesy of the artist

Direi che ogni fotografia, in un certo senso, è una frattura. C’è sempre un’inquadratura, la scelta di qualcosa e l’esclusione di qualcos'altro, l’interruzione di un continuum. Fa implicitamente parte del mezzo e del gesto fotografico. Jean-Christophe Bailly, filosofo il cui pensiero risuona particolarmente con questo progetto e che verrà spesso citato in questa intervista, parla di “violenza del tempo fisso”. È una cesura, un taglio, che interrompe il flusso del vissuto (sia quello della creazione sia quello dell’incontro con l’opera) con l’ostinazione e l'intensità della sua presenza immobile. Qui parliamo di questioni fondamentali relative alle immagini fotografiche – ecco mi pare che in questo progetto tu faccia sempre della fotografia, ma riscoprendone certi aspetti, incontrandola in modo completamente diverso.

S: C’è una volontà precisa di farlo. C’è stato un momento in cui mi sono chiesta fortemente se la fotografia fosse il mezzo migliore per dire delle cose e in realtà proprio questa domanda mi ha riportato alla fotografia. Mi sono affidata all’essenza del processo fotografico e agli elementi chiamati a partecipare: un esercizio volto a dimenticare tutto quello che sapevo in termini di controllo del risultato e di progettazione a priori, per imparare a sbagliare e a credere nell’Errore come parte essenziale del processo, tanto da sceglierlo come Matrice fondamentale. Continua a interessarmi moltissimo il presupposto che la fotografia rifletta qualcosa di reale, questo permette di interrogare l’ambiguità di tale affermazione: attraverso il processo fotografico, il mezzo ci permette di inserire delle domande tra queste fessure, tra l’immagine della realtà che ci viene mostrata e crediamo di riconoscere, e i limiti delle sue capacità rappresentative. Questo spazio di possibilità è la finestra da forzare e tentare di varcare attraverso la pratica fotografica. Per questo è importante che l’azione creativa, che la forma e la materia, diventino testimonianza di questo aspetto intrinseco del processo fotografico. Il lavoro con Fiorenza è stato molto importante in questo senso: ci siamo chieste in che modo raccontare il processo di realizzazione di un immagine nel momento in cui questa ritorna al mondo come oggetto all’interno di uno spazio, e abbiamo trovato delle soluzioni attraverso il formato di stampa, le diverse proporzione e accostamenti, la posizione dell’immagine rispetto allo spettatore e all’interno dello spazio della galleria. La mostra è stata un territorio di sperimentazione sul dove può portare, quando ti trovi davanti a un’opera, una domanda che in quel momento è bidimensionale.

F : Mi interessa molto questa riflessione, in che spazio della fotografia siamo? Credo che possa aver senso anche lasciare delle domande aperte in questa intervista, aprire, moltiplicare le domande.

Pensavo anche a delle immagini del progetto che risuonano rispetto a questo, alla scelta di Sara di soffermarsi su quel tratto della pellicola dove il rullo inizia, o finisce, o si interrompe.

Non si tratta solo di accettare l’errore, ma di andarci dentro, è forse anche questa una presa di posizione rispetto alla fotografia.

Sara Palmieri, Matrice#4, Matrice#2, Matrice#6, Matrice#3, Matrice#5, da La linea d'acqua, courtesy of the artist

 

Eravamo casa. Eravamo terra. Eravamo grano. Le tue foto e queste didascalie in particolare mi hanno fatto pensare a queste parole di Jean-Christophe Bailly. Usa un termine preso in prestito dall’agricoltura, dalla terra, per descrivere il tenore temporale di territori e immagini, il potenziale dialettico e redentivo un passato in latenza che ritorna come una scintilla, si propaga nel futuro, riecheggia a partire da una superficie sensibile. Le immagini hanno una capacità di sopravvivenza, direbbe Georges Didi-Huberman (ispirato da Benjamin, Derrida e Warburg), sono spettri che irrompono come un sintomo, sfuggono, insistono, respingono e confrontano nella loro immobilità.

S: Quelle didascalie usano il verbo ‘imperfetto’: mi interessava l’idea di un verbo che non assolve completamente a un compito, in questo caso quello di trattenere una memoria, o l’esistere delle cose. Quella stessa incompletezza delle immagini che portano quei titoli: sospese in una dimensione di grigio, chiedono di restare in attesa, non completamente dissolte né ancora, o mai, svelate. Costringono quindi a guardare oltre, ad ipotizzare una nuova linea d’orizzonte ormai oscurata dal tempo.

E’ importante per me anche la questione del ruolo della fotografia in relazione alla storia. Quando si deve narrare un evento, l’immagine-documento sembra essere un riferimento più preciso quindi una rassicurazione necessaria, una forma di rispetto. Ma la traduzione di una memoria non è mai fedele, perché soggettiva; è necessario svincolare le immagini dal ruolo di dover affermare qualcosa di definitivo, per lasciar loro aprire dei varchi, per trasportarle verso il futuro, per farle sopravvivere: è anche un’azione che viaggia su dei territori di possibilità politica ed etica scegliendo il linguaggio della poesia, affidandosi all’estetica e non alla teoria, al potere intrinseco ed emozionale delle immagini come spazio di libertà. Mi interessa osservare le possibilità della fotografia nel tempo e come può mutarne l’utilizzo per dire delle cose, interpellare attraverso le immagini.

 

F : Pensavo ad una frase di Dayanita Singh sul libro fotografico, ma che può essere applicata all’arte in generale: « un libro è una conversazione con uno sconosciuto nel futuro. » Questo progetto è legato al territorio e alla famiglia, ma non dobbiamo considerarli aspetti dominanti. Abbraccia una dimensione personale fortissima, con un’urgenza che diventa universale e collettiva.

Lo vedo come un lavoro verso il futuro più che verso il passato, in cui il passato funziona da rimbalzo e permette di spingersi molto oltre. Pone anche alla fotografia stessa delle domande rispetto al futuro e al passato. Esplora il mezzo sul piano più originario e materiale, dei sali d’argento, della pellicola, dell’acqua, ma ritorna in quello spazio per vedere come, a partire da esso, poter andare molto più in là. Nessuna di questa scelte è nostalgica o conservativa. L'opportunità di fare una mostra a Verona (nella regione del Polesine) ha permesso una chiusura del cerchio, ma ci aspettiamo che il lavoro possa fare esplodere consonanze e dissonanze anche in un contesto storico-culturale differente. Ci interessa profondamente cosa può essere riconosciuto di questo nuovo linguaggio artistico, più astratto e cosa può diventare, lasciare questo spazio di rivelazione, che poi ha tantissimo a che fare con il materiale della fotografia. Che cos’è la fotografia nel momento in cui per la prima volta vediamo un’immagine apparire su un foglio bianco? E’ una dimensione alchemica.

« La memoria è un continente in movimento, perennemente invaso, minacciato, ma che non può essere fatto reagire a comando: la memoria è una potenza autonoma, ribelle, e l'oblio non è il suo contrario. Se perdiamo di vista questo, perdiamo anche quello che viene con la parola dormienza (dormance nell’originale francese), che viene dalle cose della terra, dove designa in agronomia la proprietà che hanno i semi di conservare per anni, sotto un aspetto inerte, il loro potere di germinazione. È lo stesso con quelle che chiamo superfici: sono tutte inondate di dormienze che possono essere risvegliate in qualsiasi momento, non importa quanto lontano dalla semina. »

Sara, oltre ad essere artista visiva ti occupi anche di curatela e hai fatto il design dei tuoi libri precedenti. Per la prima volta, per mostra e libro de La Linea d’Acqua, collabori con un’altra persona, ti affidi al suo sguardo e alle sue competenze. Puoi parlarci della tua collaborazione con Fiorenza e di come ha contribuito allo sviluppo del progetto? Fiorenza, tu invece sei curatrice e book-editor : hai l’abitudine di confrontarti con lavori di altri, di cercare equilibri tra le idee degli artisti e le tue sensazioni ed esperienze. Mi interessa molto saperne di più sul tuo punto di vista, sul tuo ruolo.

S : Concepisco i libri e le mostre come parte integrante dell’opera, il mio modo di utilizzare la fotografia include la costruzione di spazi tridimensionali attraverso le immagini e come luogo in cui farle tornare per instaurare un dialogo, ma è un processo che resta molto solitario, lo attraversa un unico sguardo. Per questo lavoro ho messo in atto fin dall’inizio qualcosa di diverso senza sapere bene dove mi avrebbe portato: ho chiesto a Fiorenza di lavorare insieme al libro più di un anno fa, quando ancora non ero pronta ad aprire il lavoro ad altri e lei mi ha dovuto aspettare. Era una parte del processo che mi serviva per arrivare a esercitare il ‘far entrare’, l’affidarsi, l’abbandonare il controllo: c’era sia la necessità di mettere in gioco certezze e modalità messe in atto fino ad allora, sia la responsabilità verso il tema e le persone a cui il lavoro si rivolgeva per sua natura, che mi chiedeva di esercitare l’ascolto e le possibilità del linguaggio in un azione di traduzione e trasmissione della memoria e del trauma in relazione ad una storia collettiva. Il lavoro con Fiore, partendo da un presupposto di fiducia nel ruolo affidato all’altro e mantenendo sempre il lavoro al centro di tutto, mi ha costretto a chiedermi da subito quale fosse la forma più adeguata per farlo tornare nel mondo e questo ha portato me e il mio lavoro a crescere molto.

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Sara Palmieri, Argine#1, da La linea d'acqua, courtesy of the artist

F : Nel caso di Sara ci siamo trovate a parlare di libri, di fotografia, naturalmente, ci siamo rese conto già molto tempo fa che abbiamo una dimensione di ricerca e di pensiero molto comune. Non ci dobbiamo decifrare troppo e ci viene molto facile aderire al pensiero l’una dell’altra.

Sì, ho l’abitudine di confrontarmi molto con il lavoro degli altri, la mia dimensione lavorativa sia nel curare mostre che nel progettare libri è quella di avvicinarmi quanto più possibile alle intenzioni dell’autore, attraverso la mia ricerca individuale e la collaborazione e il dialogo serrato con gli artisti.

Nel migliore dei casi come per La Linea d’Acqua ho l’occasione di esplorare sia lo spazio del libro che della mostra, declinando il progetto in questi contesti diversi, traducendo il lavoro in materia ed esperienza attraverso l’utilizzo dei dispositivi peculiari ai diversi spazi.

Al momento la mostra è uno spazio attivo, pieno di entusiasmo vitale e feedback e ne siamo contentissime. In seguito potremo dedicarci al libro, c’è in noi la voglia di vedere che cosa può diventare.

Sara, come la maggior parte degli autori con cui lavoro, mi ha permesso di entrare molto dentro al suo processo creativo, ha fatto lo sforzo enorme di accettare che questo suo processo artistico si rivelasse, è arrivata a un punto in cui questo svolgimento aveva una presenza tale da poter essere con delicatezza condiviso. Abbiamo lavorato a fondo insieme con l’intento di rafforzare il senso delle opere singole e dell’insieme del progetto, attraverso le funzioni di senso dello spazio espositivo: lavorando molto sulla resa della materia, degli spazi, sui formati, sulle distanze, sulla disposizione delle opere nello spazio e sul loro dialogo reciproco – sempre lasciando completamente al centro il lavoro.

Sara Palmieri, Eravamo casa, trittico da La linea d'acqua, courtesy of the artist

Nella vostra pratica artistica e curatoriale siete accomunate da una passione comune: i libri. La vostra collaborazione è nata come un progetto di edizione di La Linea d’Acqua, che però è stato preceduto dalla mostra a Fonderia 20.9. In che modo il vostro interesse comune per l’editoria, per un modo di sperimentare con immagini, materiali e spazio proprio al libro, influenza la vostra curatela e il vostro modo di concepire forme di incontro tra spettatori e opere?

F: Come dicevo mostre e libro sono spazi paralleli, che sia per me sia per Sara lavorano in stretto contatto. Chiaramente, le dimensioni di senso che devono essere esplorate sono un po’ diverse. Quando facciamo una mostra, lavoriamo con uno spazio esistente che innanzitutto dobbiamo comprendere e mettere in relazione con il progetto. Nel caso del libro, abbiamo delle limitazioni date dalle caratteristiche strutturali proprie del dispositivo (ovvero la copertina, le pagine, il senso della lettura, etc..), ma anche grandi margini per creare uno spazio narrativo ad hoc per il lavoro. Il libro ha bisogno di essere “attivato” nell’interazione: se il fruitore non apre il libro, il libro non si attiva. Non sai mai a che velocità si muoverà, come si muoverà. Questo accade anche nello spazio espositivo però, in un certo senso, è più facile mantenere una persona all’interno di une mostra che dentro un libro.

Ogni intervento sulla dimensione spaziale è un aspetto che influisce sul senso del progetto. Le scelte possibili sono tantissime, da tutti i punti di vista. La nostra immagine della galleria è organica, siamo ospitate da questo spazio che è composto in una certa maniera, dove costruiamo un’esperienza. E’ uno spazio di movimento e creazione di senso attraverso le opere, che diventano contemporaneamente linguaggio e oggetto, soprattutto in alcuni casi. La stessa cosa succede nei libri, attraverso materie e opacità, ma anche la carta, la qualità di stampa, le dimensioni, il montaggio delle immagini, il ritmo o il silenzio che io riesco a creare attraverso le pause, l’utilizzo di testi. Questa è la prossima avventura su cui lavoreremo. Avrà dei punti di contatto forti con l’esposizione e il lavoro attuale, ma se ne staccherà anche; sarà un’esperienza un po’ più asciutta, forse più’ aerea, mentre la mostra è molto legata all’acqua.

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Immagine della mostra La linea d'acqua di Sara Palmieri curata da Fiorenza Pinna nello spazio di Fonderia 20.9

Spesso, per i non « addetti a lavori », la progettazione di libro è pensata soprattutto a livello di editing, di scelta di immagini. Fare un libro vuol dire molto di più, con un’attenzione particolare anche a dettagli materici e tattili come tipo di carta, inchiostro, rilegature etc. L’importanza di questi particolari si ritrova nell’installazione a Fonderia, dove lo spettatore è immerso in un universo creato per e con questo progetto –per esempio i diversi tipi di cornice, i colori di sfondo dei muri, vari tipi di stampa delle immagini, la parete aggiuntiva (che mi fa pensare a una pagina che stiamo sfogliando) – tutti questi dettagli si fanno segni evocatori e sensibili. Potete raccontarmi qualcosa su queste scelte e sul processo di concezione della mostra?

F: Nella mostra da Fonderia 20.9, ci siamo concentrate molto non solo sulle immagini in cornice, ma su tutti gli altri elementi che facevano parte dell’opera completa, che in realtà è lo spazio espositivo nella sua interezza. Abbiamo voluto dare alle opere un aspetto di presenza, subordinato all’idea di comprendere che spazio andavamo ad abitare, lavorando anche molto sui formati in relazione all’esperienza del corpo nello spazio. Nella prima sala si sviluppa un discorso che è difficile immaginare come opera singola, è un insieme che ha a che fare proprio con quello che tu dicevi essere questo nuovo spazio di apertura, di astrazione, di gestualità. Dove Sara si abbandona alla fotografia e alle domande, tutto insieme, contemporaneamente. Per esempio la grande foto con il cerchio nero, Matrice#0, e le piccole Matrice#1/2 hanno una relazione di senso e di dimensione essenziale, creano un forte dialogo tra di loro. Un’altra scelta molto importante è stata quella di abbassare il punto centrale della mostra, e quindi creare un orizzonte. Il concetto di orizzonte mi affascina molto, in tutte le sue forme.

Le dimensioni, delle opere e dello spazio, sono in estrema relazione con il corpo; l’esperienza della mostra è vissuta come una esplorazione fisica. Nella prima sala, di cui parlavamo, le immagini della serie Matrice più piccole sono posizionate in rapporto con la testa, il viso, mentre quella grande, Matrice#0, che si incontra appena entrati, arriva alla parte centrale del corpo dello spettatore, in qualche modo viene messa in discussione la centralità dello sguardo. L’immagine della mano, nella sala dietro il muro, funziona diversamente, è forse un punto di contatto e questo succede spesso nei lavori di Sara: ci sono delle immagini che vanno avanti e indietro, anche contemporaneamente, nella storia della sua esperienza creativa. E’ l’unica opera fuori scala, una mano molto grande, quasi in una dimensione di infantilismo. Sono piccolo, sono figlio, la casa piccola nella mano grande, posizionata sulla parete vicino a grandi finestre. Cosa eravamo? Cosa siamo rispetto alla casa? Rispetto all’abitare? Rispetto alla famiglia? Rispetto all’appartenenza? Non sono solo archetipi visivi: è un’esperienza fatta con il corpo, ma allo stesso tempo ci sono tutte questioni che riguardano abitare la vita. Il rapporto tra corpo, vita, luna, terra, orizzonte.

Abbiamo poi immaginato la stanza grigia come la stanza dell’attesa, dove ti rifugi e fuori vedi solo acqua. La stanza nera è quella sotto la grigia, con l’installazione video e sonora, che si raggiunge scendendo le scale. In questa sala “sotto” ci sono anche gli unici riferimenti alla memoria concreta, ai racconti registrati, alle immagini d’archivio, in connessione alla sua emersione, distruzione e riformazione.

Nelle opere alle pareti, nelle altre stanze, si crea invece un’altra dimensione, di rielaborazione e creazione di nuovi codici e linguaggi, liberi, come dicevamo, dall’obbligo e dalla trasparenza della documentazione fotografica. Questi aspetti sono tutti in relazione, un dialogo nello spazio e nel tempo. Ovviamente nulla è esplicito, ogni visitatore vive l’esperienza a modo suo. Dopo l’inaugurazione abbiamo ricevuto molti feedback e vari spettatori hanno chiaramente percepito che il lavoro poneva loro delle domande, che non ci poteva essere la spiegazione di nessun altro ma solo un’interazione individuale con le opere.

Immagini della mostra La linea d'acqua di Sara Palmieri curata da Fiorenza Pinna nello spazio di Fonderia 20.9

« Rivisitato e percorso all'infinito, lo spazio è ciò che rimane tra le cose, lo spazio è la somma di tutti gli spazi. Tra il più vicino e il più lontano si estende il possibile dove si svolgono le azioni. È una vertigine e un richiamo, è il paesaggio, e il corpo risponde. »

Ancora una citazione di Jean-Christophe Bailly,  per parlare di spazio, il “possibile dove si svolgono le azioni.” Una “vertigine e un richiamo”, un “paesaggio” a cui “il corpo risponde”. So che la percezione e costruzione spaziale è per te la possibilità stessa dell’esperienza e dell’interpretazione. Le posizioni, dell’autore, delle opere in mostra, dello spettatore, sono essenziali per la creazione di relazioni.  Palinsesto e impronta, lo spazio è anche sempre tempo, traccia, memoria - che sia naturale o artificiale, visto o immaginato, attraversato o rappresentato, superficiale o profondo. Mi parleresti della relazione tra spazio / immagine / paesaggio / corpo nel contesto specifico di questo progetto?

S: Mi ricollego a quanto detto sul posizionamento fisico rispetto alle immagini e allo spazio espositivo, all’altezza in cui abbiamo collocato le foto, all’incontro del corpo con le proporzioni delle immagini. La risposta delle persone è soggettiva ed è interessante il dialogo che si attiva attraverso la mostra. Per esempio nel caso della grande immagine all’ingresso, Matrice#0, qualcuno ha detto: “questa immagine mi tira dentro, mi risucchia”, come l’effetto di un buco nero che ti porta in un’altra dimensione, spaziale o temporale.

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Immagine della mostra La linea d'acqua di Sara Palmieri curata da Fiorenza Pinna nello spazio di Fonderia 20.9

Altri hanno commentato: “ è qualcosa che mi viene addosso”, che in qualche modo respinge, travolge, corre verso di te, e da cui difendersi. E’ impressionante perché stiamo parlando di un’immagine fissa, non di un corpo tridimensionale: questo qualcosa che travolge e trattiene può essere la devastazione dell’acqua che irrompe, l’idea del trauma o della perdita di qualcuno o di un luogo di appartenenza, ognuno ritrova in quel nero vuoto (o pieno) la traccia la traduzione di una memoria e di una dimensione emotiva a cui agganciarla. Questa immagine riesce ad attivare un effetto di tridimensionalità perché lo contiene, nel senso che contiene una domanda posta tramite un’azione fisica che nega parzialmente la possibilità di vedere e attiva una  relazione tra l’autore che guarda, la macchina fotografica, e la domanda volta al paesaggio, alle tracce e al tempo in esso contenuto, e quella domanda è: cosa sto guardando, in che tempo? in che spazio? Oscurando una parte dello sguardo attraverso questo gesto si genera una frattura nello spazio percettivo dell’immagine, tra il luogo e tempo a cui fa riferimento, e l’orizzonte visivo diventa anche emotivo. C’è poi l'aggressività di uno spazio di colore, il nero, che invade ed interrompe un’immagine che vibrava di un’altra dimensione tonale e c’è la posizione sull’orizzonte -quindi apparentemente lontana- di questa presenza, ma i cui contorni sfumati ne fanno percepire la vicinanza. Qui risiede la possibilità e l'ambiguità della fotografia, tra profondità di campo e avvicinamenti, la necessità di tradurre le domande che il lavoro si pone nel processo stesso di creazione di un’immagine, il cui spazio percettivo generato e potere estetico sono sempre il risultato di una decisione, l’effetto di una relazione. Il corpo è il primo spazio attraverso cui ci relazioniamo, attraverso cui percepiamo il tempo in cui viviamo. La mostra in questo senso è anch’essa un corpo, che generiamo noi, un corpo altro dove possono avvenire degli incontri, delle traduzioni tra il fuori e il dentro, tra il tempo e noi stessi.

All’inizio del video si sente il codice Morse, evocato anche nel testo che accompagna il progetto come metafora di una possibile trasmissione di segni. Quando osservo le immagini e la loro installazione, però, io penso anche a una partizione musicale, a un gesto ritmico, scandito da sincopi ed intervalli, diverso ad ogni interpretazione, diverso per ogni spettatore.

S : La linea d’acqua è anche un termine tecnico per indicare a che altezza è la soglia dell’acqua in caso di alluvione, una linea che va monitorata. Pensavo a come questa definizione possa ricollegarsi al movimento e le modulazioni del linguaggio rispetto ad una linea di riferimento, un po’ come le note sulla linea del pentagramma. Questa linea nelle immagini, e nello spazio della mostra, è sempre indefinibile e inafferrabile e tutto ruota intorno ad essa, a cosa sta sopra e cosa sta sotto, cosa è emerso e visibile e cosa è sommerso e non c’è più, astratto e concreto, fluido e solido, passato e presente. Quella linea rappresenta il filo della memoria, l’incompletezza del linguaggio che si frammenta nel tramandare e muta in altre forme, l’orizzonte interrotto del paesaggio, il fiume come metafora dello scorrere del tempo e le cose che in esso svaniscono.

Con Fiorenza abbiamo scelto di mettere in mostra molti pezzi di pellicola che sono l’inizio o la fine di un rullino (Matrice#2 - #6), quando l’immagine si inizia a formare ma la pellicola ancora non è del tutto fotosensibile: lì si ritrova quella linea d’orizzonte, la memoria e il paesaggio interrotti. Il paesaggio del Polesine è metafisico, un ambiente ideale dove attuare queste sperimentazioni ed esercitare dei discorsi linguistici, oltre ad essere un luogo dove la mia storia inizia e ritorna. La linea dell’orizzonte è veramente un punto da cui si muovono tantissime cose e in qualche modo bisogna non avere più niente, per ritrovarsi su questo punto: l’inizio di una foto, dove non sai nulla, per poter iniziare a farsi nuove domande.

La relazione creata tra il sopra e il sotto nel percorso espositivo che simboleggia anche il sopra e il sotto di quella linea, è stato accordato con la ripetizione e modulazione di queste immagini di ‘errori fotografici’ che diventano matrici di paesaggi che si generano, mutano, si evolvono, cercano un posizionamento nello spazio della galleria e nello spazio interiore di chi l’attraversa. Come in una partitura, c’è la modulazione e la ricerca di un nuovo linguaggio, per poter tradurre ciò che ha perso confini e linee definite, ciò che non c’è più, e il Morse, suono che dal video al piano di sotto riecheggia a quello superiore, per me è un tentativo di comunicare tra il sopra e il sotto di quella linea di orizzonte, tra il passato e il futuro.

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Sara Palmieri, Untitled#1 da La linea d'acqua, courtesy of the artist

SARA PALMIERI - BIO

Sara Palmieri è un artista visiva che vive e lavora a Roma. Si laurea in Architettura nel 2005 e per anni lavora come scenografa ed interior designer. Utilizza la fotografia come strumento principale per indagare la percezione di tempo e spazio, e come punto di partenza per mettere in discussione le forme della realtà, mostrare la fragilità delle sue certezze. I suoi lavori sono stati esposti a livello internazionale in festival e gallerie, e presenti in vari magazine stampati ed online. Ha pubblicato due libri d’artista, M. e La plume plongea la tête (Premio Marco Bastianelli 2016 come miglior libro fotografico italiano autoprodotto) e curato progetti editoriali. La linea d’acqua è finalista del Prix Mentor, tra i vincitori degli Urbanautica Insitute Awards e finalista del Premio Francesco Fabbri per le Arti Contemporanee.

  

www.sarapalmieri.com

FIORENZA  PINNA - BIO

Fiorenza Pinna è curatrice indipendente e book designer, si occupa di fotografia contemporanea e foto-libri. Collabora con gallerie, istituzioni, case editrici, festival e accademie – sia italiane che internazionali – per consulenze, docenze, workshop, conferenze e letture portfolio. Fa parte di giurie per premi fotografici nazionali e internazionali. Insegna e tiene workshop in diverse realtà pubbliche e private. Cura e disegna libri fotografici e mostre, ottenendo premi e riconoscimenti.

 

LA LINEA D’ACQUA - Sara Palmieri, una mostra curata da Fiorenza Pinna.

Fonderia 20.9, Verona, 27.11.2021 - 08.01.2022

www.fonderia209.com

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